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Ilva, Outlet, Mossi & Ghisolfi. Novi Ligure e Tortona. Industrie, territori e modelli (in sviluppo e in crisi) a confronto in una provincia che rincorre sogni irrealizzabili e non concretizza quello che ha invece a portata di mano. L’Alessandrino è fatto poi di un capoluogo avvolto dalle nebbie dell’autocelebrazione e dalla incapacità di progettare il futuro. Dal polo di Valenza che, con fatica e grazie alla convinzione manifestata da gruppi internazionali (lo dimostrano i dati dell’ultimo Monitor dei Distretti piemontesi realizzato da IntesaSanpaolo) sta recuperando lo smalto che si era appannato e che era annegato nella crisi di un sistema frammentato e frantumato tra capacità imprenditoriali di avanguardia e pura improvvisazione. Da Acqui Terme dove l’industria, a parte meritorie eccezioni, è in larga misura un ricordo e il terziario turistico legato alle terme (fra le prime in Italia per qualità) che è sempre in affanno a causa delle disastrose politiche pubbliche e di una imprenditoria privata che non ci ha mai creduto fino in fondo. Da Ovada, altra terra di mezzo fra Piemonte e Liguria, appannata, ma anche capace di, pur pochi, guizzi d’ingegno. Da Casale Monferrato, terra del ‘freddo’ massacrata dalla crisi del settore, ma anche tessuto imprenditoriale che ha saputo introdurre un minimo di diversificazione, poca e non sufficiente per recuperare quanto andato perduto, però è almeno qualcosa.

Questa è l’industria in un quadro fortemente di sintesi che se esaminato più in dettaglio mette in evidenza il ruolo, spesso fuori dal controllo delle amministrazioni locali, delle multinazionali e i limiti, clamorosi per certi aspetti, delle società dalle radici locali. I casi recenti di Ilva, Outlet di Serravalle Scrivia e Mossi & Ghisolfi sono lo specchio di un sistema che sfugge a logiche e dinamiche locali, ma che potrebbe, a sua volta, offrire opportunità da sfruttare. Citiamo anche Guala Closures di Alessandria. Azienda leader nelle chiusure di sicurezza per liquori, vino, olio e aceto, acqua e bevande, prodotti farmaceutici e cosmetici (sede operativa nella zona industriale D6 di Alessandria, sede legale in Lussemburgo, un fatturato medio superiore a 500 milioni di euro, 26 stabilimenti nel mondo e circa quattromila dipendenti) che è in vendita. Vicenda che ovviamente travalica confini e competenze locali, ma che non viene minimante presa in considerazione dalla politica e tanto meno capita dall’opinione pubblica media che ancora crede che il nome Guala rappresenti la storica famiglia industriale che con quell’azienda, in realtà, non ha più nulla a che vedere tranne che per una presenza simbolica.

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Quella alessandrina è una provincia dalle mille sfaccettature, dove l’autoreferenzialità è uno sport diffuso. Peccato non porti a guardare oltre il proprio naso chi è convinto che il mondo possa cambiare solo perché rilascia una dichiarazione durante una conferenza stampa convocata per raccontare il nulla (quando sarebbe bastato un comunicato stringato per spiegare cosa avviene a livello locale nell’ambito di vicende che passano, purtroppo peraltro, sulla testa di tutti). Gli ultimi sviluppi di Ilva, Outlet e M&G sono gli esempi perfetti. L’Ilva è stata acquisita dalla Am Investco Italy Srl (il capitale sociale risulta detenuto da ArcelorMittal Italy Holding Srl per il 51 per cento, ArcelorMittal SA per il 34 e da Marcegaglia Carbon Steel Spa per il 15). Il piano industriale nazionale prevede il passaggio da 14.000 a quasi 9.900 dipendenti, un taglio destinato a colpire anche Novi Ligure per alcune decine di unità. Cgil, Cisl e Uil annunciano per giovedì una assemblea pubblica e uno sciopero su tre turni. Risposta da copione, affermazioni roboanti contro gli esuberi, richiamo al territorio affinché reagisca. Per fare cosa? Non è chiaro perché la cessione è conclusa e oggi l’Italia paga scelte scellerate come quelle di costruire stabilimenti in lungo e in largo nel Paese dove realizzare le diverse fasi di lavorazione. Ecco il peccato orginale di avere a Taranto l’impianto di produzione e a Genova e Novi Ligure i maggiori centri di lavorazione. L’economicità della filiera produttiva naufraga subito nel fatto che le bobine di acciaio devono attraversare (per mare o per terra) la nazione. Decisioni prese da una società pubblica negli anni del boom economico italiano e, ovviamente, in un ben diverso quadro economico e di mercato. Ma nei decenni successivi, quando tutto comincia a cambiare, a nessuno viene in mente di cominciare a pensare al futuro e l’unico esercizio è quello di difendere il singolo orticello. Salvo poi urlare a più non posso.

L’Outlet di Serravalle Scrivia è la celebrazione del business commerciale. Se ogni anno il centro deve fare i conti con milioni di presenze (in larghissima misura di stranieri) vuole dire che il modello, per chi lo ha ideato, funziona. Bello o brutto, visto dal territorio, non importa. Infatti è entrato nei tour delle crociere, nei circuiti turistici internazionali, nell’offerta della promozione di massa. Ma nell’Alessandrino invece di cercare di cogliere quello che di positivo si potrebbe intercettare per il territorio (esempi oggi vi sono, ma ancora non strutturati come sarebbe opportuno), si è scatenata una battaglia contro l’insediamento. Una classica lotta contro i mulini a vento perché intanto le decisioni prese a livello internazionale sono del tutto indipendenti dalle posizioni locali. In queste settimane il sindacato confederale è tornato a fare sentire la voce perché la dirigenza di McArthur Glen ha detto stop all’ipotesi di sottoscrivere accordi sindacali. Svolta per certi aspetti prevedibile. Ma non per il sindacato che si è accorto, anche in questo caso con ritardo, che il mondo sta cambiando a gran velocità.

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Per Mossi & Ghisolfi la storia è ancora diversa. La crisi del gruppo è di natura innanzitutto finanziaria. E si è tradotta nella richiesta di cassa integrazione straordinaria per Biochemtex con sede a Tortona e centro di ricerca a Rivalta Scrivia, l’impianto di Crescentino per la produzione di etanolo di seconda generazione, e M&G Finanziaria con sede ad Assago. Il tutto per oltre duecentoventi dipendenti. In altre parole, è la testa del gruppo a essere in crisi, pagando l’indebitamento negli Stati Uniti d’America (un miliardo di dollari) per la costruzione dell’impianto di Corpus Christi e quello europeo per almeno seicento milioni di euro. La finanza uccide lentamente l’industria? Un po’ di verità c’è. Ma non sempre per responsabilità unicamente di sfrontati finanzieri. A volte è il risultato di un mix di fattori, in cui il classico passo più lungo della gamba arriva sull’onda di successi precedenti. Però arriva sempre il momento in cui si tira una riga sotto i conti. E oggi la società tortonese fondata da Vittorio Ghisolfi studia la cessione del business dei biocarburanti in Italia, affidando a Rothschild lo studio di un accordo di ristrutturazione del debito negli Usa e a Mediobanca, in Italia, per gestire un processo analogo. Si farà avanti qualcuno? Probabile. Con quali effetti sull’attività del gruppo e dei dipendenti? Risposta difficile. Almeno per ora.

E nell’alessandrino cosa si dice? Niente. In fondo questo territorio è quello che ha sollevato le barricate quando M&G ha annunciato di realizzare nel Tortonese il nuovo impianto di biocarburanti. La società è stata costretta a cercare una sede fuori provincia. Non è certo stata questa una delle cause scatenanti, però avere il centro di ricerca e sperimentazione a Rivalta Scrivia e la produzione a Crescentino non è il massimo. Vero che in un mondo globale tutto è possibile. Però un po’ di buon senso non dovrebbe mai venire meno in un progetto industriale avveniristico e ambizioso. Che voleva fare entrare l’Italia fra i grandi della chimica internazionale e che oggi invece rischia di naufragare tra cassa integrazione, ristrutturazione e vendite.